mercoledì 8 dicembre 2010

I Nobel che disturbano i governi

Nobel per la pace, o meglio contro l'oppressione. Il riconoscimento al dissidente cinese Liu Xiaobo, che Pechino ha definito «un'oscenità», non è stato il primo premio ad irritare un governo per l'esplicita volontà del Comitato norvegese di accendere i riflettori sulla violazione dei diritti umani in un determinato Paese: dal Dalai Lama ad Aung San Suu Kyi, all'iraniana Shirin Ebadi, premiati per il loro impegno e le loro azioni non violente in favore della libertà e dei diritti dell'uomo, fondamenti della pace tra le nazioni. Anche nel 1989 al Nobel conferito al Dalai Lama, leader spirituale dei buddhisti del Tibet, per la sua ricerca di «soluzioni
di pace» in difesa «dell'eredità storica e culturale del suo popolo», la risposta della Cina non si fece attendere: Pechino definì il premio frutto di «un complotto dell'Occidente» e accusò il Comitato di «interferire deliberatamente negli affari interni della Cina». Ancora oggi il Dalai Lama, che vive in esilio in India, viaggia per il mondo occidentale per promuovere la causa dei tibetani, ed è diventato il simbolo della lotta per l'autodeterminazione dei popoli. Fu invece accolto nel silenzio della giunta militare birmana, il Nobel conferito nel 1991 ad Aung San Suu Kyi, la leader del movimento di opposizione 'Lega per la Democrazia', all'epoca già agli arresti domiciliari da due anni, e tornata alla libertà solo qualche settimana fa. Oslo riconobbe «il suo impegno per la democrazia» e il suo «coraggio civile» con cui «con metodi pacifici combatte contro un regime caratterizzato dalla brutalità «. Ambigua invece la reazione di Teheran al premio Nobel alla giurista iraniana Shirin Ebadi, nel 2003 (l'anno in cui il mondo si aspettava il premio a Giovanni Paolo II), salutato dalle inattese «congratulazioni» del governo riformista di Mohammad Khatami, dettate forse più da un orgoglio nazionalistico che da un reale riconoscimento dei suoi meriti. Il regime degli ayatollah sottolineava infatti «l'onore per la comunità delle donne iraniane e delle donne musulmane», esprimendo la speranza che le opinioni della militante per i diritti umani «soprattutto in difesa di donne e bambini siano prese in considerazione all'interno come al di fuori dell'Iran».Da allora però Ebadi ha denunciato di subire minacce e
persecuzioni, anche dalle autorità iraniane, ma è sempre rimasta in prima fila per difendere i diritti umani, al fianco dei manifestanti anti-Ahmadinejad o di Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna condannata prima alla lapidazione poi all'impiccagione.

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